Sinceramente Barbaresco.

Primo - rispetto al Barolo - in ordine alfabetico.
Secondo per fama e notorietà.
Pari per grandezza, eleganza e capacità di suscitare emozioni.

Eccomi con un’altra personale dichiarazione d’amore dopo il Pinot Nero; in questo caso verso una denominazione: il Barbaresco. Vino tra quelli fondamentali dell’enografia italiana, conosciuto dal sottoscritto quando ero agli inizi di questa grande passione. Poi è venuto tutto il resto, Brunello, Barolo, Borgogna, Bordeaux, Alsace, Alto Adige, Lombardia, Sicilia…ma primo fra tutti il Barbaresco.
Non so il perché sinceramente, ma è stato un piacevolissimo colpo di fulmine. Forse grazie anche alla pazienza e alla capacità di alcuni produttori che ho la fortuna di conoscere. Su tutti Teobaldo Rivella, Roberto Minuto e Enrico Dellapiana. Non poteva mancare quindi una serata all’insegna di questo vino, di origine universitarie, tecniche, non nobiliari come l’altro grande rosso di Langa a base nebbiolo. Sto parlando di Domizio Cavazza, fondatore nel 1881 della Scuola pratica di Viticoltura ed Enologia ad Alba. Son questi gli anni in cui il Cavazza concentra le sue attenzioni sull’elaborazione di un vino a base nebbiolo un po’ bistrattato da quelli che stavano dall’altra parte di Alba, città che da più di un secolo divide le due grandi DOCG italiane; si arriva così nell’anno di grazia 1893 quando il professor Cavazza convoca nella sala comunale di Barbaresco una pubblica adunanza di viticoltori e proprietari: l’assemblea approva subito il decreto con cui nasce la Cantina Sociale dei Produttori di Barbaresco, tra le più antiche d’Italia ancora in attività. È storia recente e forse nota ai più, invece, quella del Giove Tonante dell'enologia italiana, quell’Angelo Gaja, nipote di Clotilde Rey (Tildìn), che entrò nell’azienda di famiglia nel 1961 prendendo per mano il Barbaresco e portandolo davvero in alto nel panorama vitivinicolo internazionale.
Ma torniamo a quello che abbiamo di fronte questa sera: Montestefano, Rabajà e Santo Stefano. Chiamateli pure “cru”, non si offende nessuno da quelle parti. Anzi. Due comuni su quattro: Barbaresco e Neive. Treiso e la frazione di Alba, San Rocco Seno d’Elvio, saranno protagonisti di una futura degustazione. Apriamo le danze con Barbaresco, 273 metri sul livello del mare, 634 abitanti, 320 ettari a vigneto di cui 238 a Nebbiolo. Barbarica Silvia: i romani amavano chiamare barbari chiunque non fosse dei loro. In questo caso una popolazione celtico-ligure. Sottozone di questo comune che val la pena ricordare: Montestefano, Rabajà, Moccagatta, Asili, Montefico. Passiamo poi a Neive, 320 metri sul livello del mare, 2870 abitanti, 1100 ettari a vigneto di cui 253 a Nebbiolo. Gens Naevia, famiglia gentilizia romana che probabilmente fondò il primo insediamento romano intorno al I secolo a.C. Alcuni cru? Basarin, Gallina, Serraboella, Starderi e Santo Stefano. Indimenticabile quando visitai per la prima volta questi comuni qualche anno fa; una settimana prima c’era stata un’abbondante nevicata e, passando per Neive, un mio carissimo amico mi fece notare una vigna ben delimitata senza più un centimetro di neve, mentre intorno, i restanti appezzamenti, ancora erano mediamente ricoperti da una morbida coltre bianca. Quello era proprio il Santo Stefano: mai spiegazione del concetto di cru fu più efficace di quel preciso istante.

Barbaresco DOCG Montestefano 2007, Serafino Rivella di Teobaldo
Il Barbaresco Montestefano viene spesso definito "il più Barolo tra i Barbareschi". La storia ha voluto che fosse tra i primi cru vinificati in purezza per poi essere riportato in etichetta; è del 1961 il primo Montestefano di Beppe Colla della Prunotto e del 1967 quello della Cantina dei Produttori. Qui entriamo con umiltà in casa di Teobaldo Rivella, fratello di quel Guido (da non confondere con Ezio, cavaliere del lavoro e presidente del Consorzio del Brunello di Montalcino, come ho fatto io) che fece grande la denominazione insieme ad Angelo Gaja. Lo si versa nel calice sapendo di esser di fronte alla semplicità fatta grandezza. Botte grande, attenzione maniacale in vigna, affinamento da disciplinare. Alla vista subito risalta nel suo vestito granato lucente, brilla di luce propria, una favola. La sua consistenza ci parla di una struttura che possiamo riassumere con un termine purtroppo abusato nella sommellerie: importante. Al naso profumi di frutta rossa, fiori come la viola, classici sentori da nebbiolo di langa, terra, piano piano si apre e vira verso il tabacco e il cuoio. Beviamone un po’. Subito lo stupore di ritrovarsi in bocca esattamente le stesse sensazioni olfattive accompagnata da un buon equilibrio. Giovane? Pronto? Lasciamolo in cantina che è meglio anche se, accompagnato da un brasato, si fa bere subito. A proposito, bevibilità incredibile.Barbaresco DOCG Rabajà 2007, Cascina Luisin
L’Atlante delle vigne di Langa riporta le seguenti preziose informazioni: “Maestoso cru, che si estende con una certa uniformità dal bricco più alto di Barbaresco (311 metri) fino ad un fosso all'altezza della fine del Camp Gros della Martinenga (la parte del Rabajà storico), poi volge leggermente a ovest e scende verso una zona denominata Trifolera, cambiando esposizione e offrendo terreni sempre meno adatti alla coltivazione del nebbiolo. Complessivamente esposto a sud-ovest, tranne la parte che guarda a sud, confina a nord con il Moccagatta, a est è delimitato dalla strada provinciale Alba-Acqui, a sud tocca la Trifolera e a ovest la Martinenga e gli Asili. Si tratta senza dubbio di uno dei vigneti più noti e celebrati di tutto il Barbaresco”. Che altro aggiungere? Ecco il primo Barbaresco della serata che viene da quel cru, il Rabajà di Cascina Luisin del quale conservo con cura in cantina una verticale che parte da una decina di anni fa ed arriva all’ultima annata in commercio. Come già dicevo agli inizi, questo è stato il mio approccio al Barbaresco, con questo vino, l’annata era la 2003, calda ma in bottiglia un vino ricco e ben contenuto nella sua forza alcolica. Roberto Minuto, giovane uomo di Barbaresco, fa il vino e guida questa cantina che l’anno prossimo compirà la bellezza di 100 anni. Grande festa, ovviamente. Versiamolo nel calice: rubino intenso, più compatto del primo, unghia con qualche lieve accenno al colore del disciplinare di produzione: l’aranciato. Buona consistenza, ottima limpidezza. Al naso (o “dell’eleganza”) sa stupire con sentori ben definiti, chiari. Su tutti un eccezionale ricordo della ciliegia in confettura. Poi la viola, la rosa, fiori appassiti. Anche qui un pizzico di spezia, pepe bianco in evidenza. Proviamolo in bocca. Attacco potente, alcol ben incorporato nel complesso, va giù che è un piacere. Tannino quasi perfetto, davvero ottima beva, buona persistenza, molta frutta in bocca, dimenticatevelo in cantina. Darà il meglio di sé nel 2017, diamogli tempo di compiere 10 anni!

Barbaresco DOCG Riserva Rabajà 2005, Produttori di Barbaresco
Ancora un Rabajà, questa volta della leggendaria cantina sociale fondata sul finire dell’800. Del cru ne abbiamo già parlato sopra, lanciamoci a capofitto su questo vino, unica riserva della serata. Compatto, rubino con pochi riflessi granati. Un bel colore, piacevole osservarlo nella sua diversità dai precedenti: non è l’inconfondibile colore del nebbiolo. Al naso una buona intensità, frutta rossa, kirsch, fiori, primi segnali di evoluzione dati dalla speziatura dolce (cannella e un pizzico di vaniglia) ma soprattutto dall’etereo unito al cuoio e al cioccolato. Peccato per l’intensità, vino che necessità una continua roteazione del calice per far emergere questi sentori. L’ho aperto 2 ore prima della degustazione senza scaraffarlo, forse ha bisogno di più tempo. Proviamolo in bocca. Equilibrio quasi raggiunto, ottima sostanza, anche in questo caso il 14% vol. non si percepisce affatto. Non eccessivamente persistente. Che dire? Sarò schietto: un po’ son rimasto deluso da questa etichetta. Mi aspettavo più emozioni, qualcosa che lasciasse il segno. Invece mi son trovato di fronte un vino ben fatto, tecnico, asciutto, ma con poca anima. Peccato. Magari ha solo bisogno di esser dimenticato in cantina.

Barbaresco DOCG Santo Stefano 2005, Bruno Giacosa
Bruno Giacosa è uno degli uomini del vino che vorrei conoscere. E di fronte alla sua Menzione Geografica Aggiuntiva (cru – ripetetelo più volte, sentite come suona meglio) quale il Santo Stefano, questo desiderio diventa sempre più forte. Esposizione sud-ovest, terreno marnoso calcareo, di proprietà dei fratelli Stupino del Castello di Neive dai primi anni Sessanta: quando la famiglia Stupino acquista il Castello di Neive, nel 1964, il Santo Stefano è poco più di un gerbido. Leggiamo dal sito dell’azienda: si dovette procedere a “riambientare la vite in una vigna che pure era già nota per il suo valore più di due secoli prima (lo testimonia un cabreo del 1720). Sono poco più di 8 ettari: 6,69 vengono piantati a nebbiolo, 1,5 a barbera”. Santo Stefano, di fatto, è un cru monopole (ma una parte delle uve sono appunto vendute a Bruno Giacosa: e questo la dice lunga sul valore intrinseco del terroir). Versandolo nel calice diffonde nella sala profumi di frutto incredibili. Brilla di luce propria e ha un colore perfettamente in linea con il Barbaresco di Rivella: trasparente, granato, aristocratico. Buona consistenza, lacrime e archetti da manuale. Al naso la sopresa: siamo di fronte ad un vino a base nebbiolo oppure a un pinot nero? Incredibili profumi terrosi, di pellame e altri sentori tipici di Borgogna. Pazzesco. Basta rotearlo un attimo nel calice che sprigiona tutta la complessità del nebbiolo: ecco la viola, i frutti rossi, prugna, note balsamiche, speziatura e terziarizzazione in divenire. No Signori, non siamo di fronte al solito cliché dei vini di langa: per pochi, austeri, tradizionalisti, scontrosi, eccetera. Qui, sorseggiandolo con attenzione, siamo di fronte ad una semplicità disarmante. Equilibrio perfetto. Perfetta corrispondenza naso-bocca. Armonico. Tannino da sogno. Come ama ripetere un mio caro amico: la semplicità è proprio quella enorme dote che solo i giganti possiedono, quella che ti permette di renderti comprensibile anche dai meno dotti, proponendo infinite chiavi di lettura in grado di soddisfare il professorone barboso e l’umile bevitore. Lasciatelo in cantina ancora una decina d'anni. Chapeau interiez, tanto di cappello.

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